Omicidio suicidio in polizia locale: si sarebbe potuto prevenire?
di Sergio Bedessi*
Quanto accaduto a San Donato Milanese l’ultimo 30 giugno, dove un ufficiale della polizia locale ha prima sparato al vice comandante e poi si è suicidato sparandosi, dovrebbe servire di riflessione, al di là dell’indagare sulle cause specifica che possano aver motivato il gesto, per una presa di coscienza sulla delicatezza dei controlli sulla categoria della polizia locale quando questa è armata.
I fatti
Pare che fra i due (Massimo Schipa, l’omicida e poi suicida, e Massimo Iussa, l’ucciso, il vice comandante) da tempo vi fosse un rapporto critico, varie incomprensioni e forse qualche screzio, il tutto forse dovuto alla gestione dei turni da parte del vice comandante.
Intorno alle ore 15 del 30 giugno, negli spogliatoi, l’ufficiale, dopo l’ennesimo episodio di attrito, ha esploso un colpo di pistola, colpendo a morte il collega; quindi ha rivolto l’arma contro sé stesso e si è ucciso.
Dagli organi di informazione non è precisato se all’episodio specifico fosse presente qualcuno; probabilmente erano soli non essendo apparsi sulla stampa particolari di rilievo e tenuto conto che si parla di recupero delle immagini della videosorveglianza per poter capire da cosa sia stato preceduto, a breve, l’omicidio suicidio.
Considerazioni
E’ presto per comprendere cosa vi possa essere stato dietro lo stato di disagio psichico, perché a questo bisogna necessariamente pensare, che ha condotto l’ufficiale a compiere questo doppio gesto, ma alcune cose si possono certo ipotizzare, anche perché episodi di questo tipo, più o meno gravi, oppure situazioni che avrebbero potuto arrivare a questo si sono verificate e si verificano in varie strutture di polizia, e non solo della polizia locale.
Il giorno dopo l’accaduto alcuni sindacati si lasciano andare ad esternazioni dalle quali dovrebbero asternersi, quanto meno per rispetto di due morti in una tragedia le cui cause sono tutte da indagare.
Mentre la UIL dice che al comando “I dissidi erano forti, tutti sapevano che la situazione era pesante, ma nessuno ha mai fatto nulla per risolvere il problema” (www.ilgiorno.it) lasciando così intendere che quanto accaduto è derivato dal clima di lavoro e dunque aprendo la strada ad imputare la colpa di quanto avvenuto all’ucciso (!), il SULPM parla di “Turni pesanti. Comandi che spesso sono sottorganico. Poche possibilità di carriera. Il lavoro degli agenti è troppo stressante. In tante realtà del Milanese ci sono situazioni difficili”, e poi “In generale, i vigili non hanno vita facile. Hanno poche protezioni rispetto alle decisioni dei superiori, all’esterno subiscono le pressioni dei cittadini. I non laureati non possono accedere ai concorsi, quindi hanno poche possibilità di carriera” (sempre www.giorno.it).
Insomma si cavalca l’ipotesi che l’omicidio suicidio non sia una colpa del singolo, quando chiaramente invece è, quanto una colpa dell’organizzazione e dei vertici di questa.
Ci si scorda che tutti coloro che vivono situazioni pesanti sul lavoro, ammesso e non concesso che quelle lo fossero, o non hanno possibilità di carriera, non uccididono certo il superiore e poi si tolgono la vita.
Ci si scorda anche, o si fa finta di non saperlo, che il subire le pressioni dei cittadini o il dover rispettare le decisioni dei superiori fa parte del lavoro di polizia: chi entra a far parte di un organo di polizia sa bene che dovrà fare un lavoro di un certo tipo che comprende anche rispettare le decisioni dei superiori e subire le pressioni dei cittadini.
Si è invece ben mossa l’amministrazione comunale: non ha negato niente, ha preso atto in modo maturo della tragedia, ha messo in moto i meccanismi per metabolizzare l’evento e, anziché subirlo dal punto di vista della comunicazione pubblica, ha deciso in modo corretto e intelligente di gestirlo correttamente e con trasparenza.
Il sindaco, non solo ha espresso “profondo cordoglio per le famiglie coinvolte” (comunicato stampa ufficiale), ma ha annullato alcune manifestazioni pubbliche, in questo modo dimostrando che la tragedia non era dei singoli, o dell’organizzazione della polizia locale, ma era qualcosa di tutta la comunità; per questo ha proclamato il lutto cittadino.
Ha poi fatto di più: non solo non ha avvalorato alcuna ipotesi delle motivazioni, in questo modo evitando di dare spazio a polemiche sulle tematiche già palesate dai sindacati, ma ha attivato da subito un sostegno psicologico per tutti i dipendenti dell’ente, non solo quelli della polizia locale, ribadendo la totale fiducia in tutti gli operatori della polizia locale, come a dire che quanto accaduto andrà indagato e compreso ma che la vita deve andare avanti.
Il problema dunque è un altro: quello dei requisiti psicologici iniziali di chi fa questo lavoro, con particolare attenzione a quando l’oeratore è armato, e il fatto che non venga adeguatamente valutato il mantenimento costante di tali requisiti.
L’assegnazione dell’arma al personale non è sempre effettuata a seguito di esami psicologici corretti e congruenti con la funzione e una volta che l’assegnazione è avvenuta non sempre si procede a controlli periodici anch’essi congruenti con il profilo di chi porta un’arma.
Spesso poi, parandosi dietro una stupida, irrazionale e pericolosa idea di riservatezza dei dati medici, il medico competente per la sicurezza sui luoghi di lavoro, rifiuta di fornire al comandante o a chi per lui, dati sulla salute psichica dei dipendenti che potrebbero invece essere utili a prevenire situazioni di questo tipo.
Non è infrequente che nei comandi di polizia locale di grandi dimensioni vi siano operatori con problemi di alcol e droga o con tendenze suicide; il comando deve conoscere queste situazioni per poter fare in modo di attuare adeguate politiche di protezione del dipendente stesso da una parte, ma di protezione dei cittadini e della struttura dall’altra.
La prevenzione in questo caso non si può ridurre ad un rapporto ristretto fra medico del lavoro e dipendente, ma deve prevedere il coinvolgimento della struttura di comando, che ha il diritto ed il dovere di venire a conoscenza di situazioni che potrebbero poi evolvere negativamente, dalle quali, con determinati provvedimenti, quali il ritiro cautelare dell’arma, ci si potrebbe tutelare.
Conclusione
Nessuno può dire se il tragico episodio si sarebbe potuto evitare, ma sarebbe il momento che si prendesse in seria considerazione la problematica dei requisiti psichici di chi gestisce un’arma e, più in generale, dei requisiti psichici di chi lavora in polizia locale.
Proprio perché si tratta di un lavoro che sottopone a stress costante (come dicono i sindacati), la persona che si trova a svolgerlo deve avere determinate caratteristiche di equilibrio psichico; è dunque il tempo di una riflessione approfondita sull’argomento che partendo dalla professionalità che si desidera avere, passando per le motivazioni del singolo che vuole lavorare nella polizia locale, approdi ad un frame di valutazione dell’operatore di polizia locale che possa essere utile, durante tutta la vita lavorativa, a mantenere un controllo costante della situazione, fornendo adeguati early warning rispetto alle situazioni come quella accaduta, dei quali il comando deve essere reso consapevole.
* Sergio Bedessi, Presidente CEDUS – Centro Documentazione Sicurezza Urbana e Polizia Locale – Socio di Cerchio Blu