Quando termina una situazione spiacevole si pensa che la sofferenza sia finita; paradossalmente accade invece il contrario, ed è da quel momento che le sofferenze hanno davvero inizio.
Ma esiste un modo di interrompere questo corto circuito?
La fine di una violenza, di qualsiasi forma si tratti, pone chi l’ha subita di fronte ad una serie d’interrogativi ai quali deve essere data risposta: “Perché, che senso ha quanto ci sta accadendo, qual è il posto che tutto ciò occupa nelle nostre vite ?”
Che cosa significa allora la parola “Resilienza”?
É veramente notevole la multiformità delle sue accezioni nelle diverse scienze, tanto che la fiorentina Accademia della Crusca parla di “elasticità della resilienza”.
Capire davvero di cosa si parla quando si usa il termine resilienza è fondamentale per avere delle risposte concrete: “Questo è il suo significato, ma all’atto pratico cosa si fa o cosa sarebbe meglio fare”?
Capire come utilizziamo la parola in questione nel nostro contesto quotidiano di cittadini, perché proprio di questo parliamo, di Resilienza Civile, è per noi molto importante visto il difficile momento che stiamo attraversando sotto il profilo della sicurezza interna.
Ogni situazione rilevante dal punto di vista sociale richiede una comprensione collettiva, in modo che ogni esperienza -anche traumatica- possa essere narrata, tramandata, ricostruita secondo un senso.
Solo allora ne scaturisce un comportamento consapevole e funzionale al benessere collettivo.
L’attenzione oggi si è spostata dalle capacità dell’individuo a quelle della famiglia, fino alla società nella sua globalità, evidenziando come nelle diverse comunità esposte ad eventi avversi si possa riscontrare un’effettiva capacità di reagire efficacemente alle crisi, in presenza di elementi positivi a tutti i livelli: psicologico, sociale, economico, ambientale, ecc…
Come un metallo ammortizza e assorbe le forze che gli vengono applicate, la resilienza consente di ammortizzare e assorbire le avversità che si incontrano, riorganizzando sul piano materiale e psichico le proprie esistenze.
Tutto questo può avvenire attraverso le cosiddette pratiche di resilienza civile messe in atto dai singoli e dalle comunità in situazioni di crisi.
Esse contengono la comprensione, la gestione delle cause e delle conseguenze del fenomeno terrorismo non solo a livello nazionale, ma anche individuale e comunitario.
Per l’Onu lo sviluppo di comunità resilienti è dal 2005 un elemento fondante del Programma di azione per la riduzione del rischio di calamità e da allora il termine “disaster resilience” è divenuto sempre più comune nei quadri d’intervento umanitario dei vari Paesi, indicando i processi di costruzione della resilienza volti a ridurre gli effetti di eventi catastrofici come crisi socio-economiche, conflitti etnici, inondazioni, epidemie o appunto terrorismo.
L’UNISDR (dell’United Nations Office for Disaster Risk Reduction) ha definito la resilienza come la capacità di un sistema, una comunità o una società esposti a catastrofi di resistere, assorbire, adattarsi e riprendersi dai suoi effetti in maniera efficiente e tempestiva, attraverso la protezione e il ripristino delle sue strutture e funzioni essenziali.
Il terreno sul quale si dovrà svolgere almeno una parte, non secondaria, della battaglia per vincere il terrorismo, sarà la consapevolezza del patrimonio culturale dell’Occidente e della democrazia come opportunità e non come imposizione, concomitante con la consapevolezza che il patrimonio dei valori comuni della specie umana può essere interpretato in diversi modi, ma non alterato nelle sue connotazioni fondamentali e infine, il riconoscimento dei bisogni materiali e sociali degli altri.
Non ci si può esimere dall’accettare questa sfida perché la vittoria rappresenta il raggiungimento di un equilibrio nuovo e superiore, rispetto a quello da cui si era partiti.
Se una battaglia si riduce allo scontro armato, la vittoria si misura solo sull’aritmetica dei morti e sulla geografia degli spazi occupati, dislocando le proprie milizie sul territorio nemico.
Occorre considerare il mondo come un luogo in cui vale la pena agire per determinare dei cambiamenti in positivo, considerare l’evento come una sfida da affrontare e non come un evento da sfuggire ed infine considerare se stessi come soggetti in grado di prendere il controllo della situazione individuale e collettiva.
Ecco la resilienza è proprio questo: il comportamento che, come per magia, porta un cambiamento epistemologico, trasformando il trauma e la vulnerabilità, in rinascita e opportunità.
Emanuela Haimovici
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del corso di formazione SFORGE
Resilienza civile come antidoto al Terrorismo